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CENSURA LEGALE MA IMMORALE

Di Antonella Randazzo



Molti conoscono la triste vicenda di qualche anno fa che ha avuto come protagonista il giornalista Paolo Barnard, che si è trovato imputato per un servizio giornalistico fatto per la trasmissione di Rai Tre “Report”. In quel caso si parlò di “censura legale” praticata attraverso la clausola della manleva, che esonera l’editore da ogni possibile problema giudiziario derivante dai contenuti del servizio giornalistico. A tal proposito Barnard spiegò:

“Eccovi una forma di censura nell'informazione di cui non si parla mai. E' la peggiore, poiché non proviene frontalmente dal Sistema, ma prende il giornalista alle spalle. Il risultato è che, avvolti dal silenzio e privi dell'appoggio dell'indignazione pubblica, non ci si può difendere. Questa censura sta di fatto paralizzando l'opera di denuncia dei misfatti sia italiani che internazionali da parte di tanti giornalisti 'fuori dal coro'. Si tratta, in sintesi, dell'abbandono in cui i nostri editori spesso ci gettano al primo insorgere di contenziosi legali derivanti delle nostre inchieste 'scomode'. Come funziona e quanto sia pericoloso questo fenomeno per la libertà d'informazione ve lo illustro citando il mio caso. Per la trasmissione Report di Milena Gabanelli, cui ho lavorato dando tutto me stesso fin dal primo minuto della sua messa in onda nel 1994, feci fra le altre un'inchiesta contro la criminosa pratica del comparaggio farmaceutico, trasmessa l'11/10/2001 ("Little Pharma & Big Pharma")… Per quella inchiesta io, la RAI e Milena Gabanelli fummo citati in giudizio il 16/11/2004 da un informatore farmaceutico che si ritenne danneggiato dalle rivelazioni da noi fatte. Il lavoro era stato accuratamente visionato da uno dei più alti avvocati della RAI prima della messa in onda, il quale aveva dato il suo pieno benestare… Sono sconcertato. Ma come? Lavoro per RAI e Report per 10 anni, sono anima e corpo con l'impresa della Gabanelli, faccio in questo caso un'inchiesta che la RAI stessa esibisce come esemplare, e ora nel momento del bisogno mi voltano le spalle con assoluta indifferenza. E non solo: lavorano compatti contro di me. La prospettiva di dover sostenere spese legali per anni, e se condannato di dover pagare cifre a quattro o cinque zeri in risarcimenti, mi è angosciante, poiché non sono facoltoso e rischio perdite che non mi posso permettere. Ma al peggio non c'è limite. Il 18 ottobre 2005 ricevo una raccomandata. La apro. E' un atto di costituzione in mora della RAI contro di me. Significa che la RAI si rifarà su di me nel caso perdessimo la causa... Ecco come funziona la vera "scomparsa dei fatti", quella che voi non conoscete, oggi diffusissima, quella dove per mettere a tacere si usano, invece degli 'editti bulgari', i tribunali in una collusione di fatto con i comportamenti di coloro di cui ti fidavi; comportamenti tecnicamente ineccepibili, ma moralmente assai meno. Questa è censura contro la tenacia e il coraggio dei pochi giornalisti ancora disposti a dire il vero, operata da parte di chiunque venga colto nel malaffare, attuata da costoro per mezzo delle minacce legali e di fatto permessa dal comportamento degli editori. Gli editori devono difendere i loro giornalisti che rischiano per il pubblico interesse, e devono impegnarsi a togliere le clausole di manleva dai contratti che, lo ribadisco, siamo obbligati a firmare per poter lavorare. Infatti oggi in Italia sono gli avvocati dei gaglioffi, e gli uffici affari legali dei media, che di fatto decidono quello che voi verrete a sapere, giocando sulla giusta paura di tanti giornalisti che rischiano di rovinare le proprie famiglie se raccontano la verità. Questo bavaglio ha e avrà sempre più un potere paralizzante sulla denuncia dei misfatti italiani a mezzo stampa o tv, di molto superiore a quello di qualsiasi politico o servo del Sistema.”(1)

Quello che è accaduto a Barnard testimonia il fatto che in caso di questioni giudiziarie l’editore può cercare di far pagare soltanto all’autore, e addirittura rivalersi sull’autore, pur avendo usufruito del suo lavoro.
Qui non si vuole giudicare nessuno, ci si limita a riportare i fatti, e poi sarà il lettore a farsi un’idea. I fatti dicono che quando vengono sollevate questioni giudiziarie si cerca di far pagare al più “debole”, ovvero al giornalista che fa il suo lavoro senza ossequiare il potere.

La faccenda sollevata da Barnard, evidentemente tocca punti scomodi e dunque si cercò di limitare quanto più possibile la conoscenza del fatto.
Se, come molti autori giustamente sostengono, una democrazia non può esistere senza una vera e libera informazione, la questione della censura legale è senza dubbio legata alla possibilità che nel nostro Paese possa esistere una vera democrazia.
Evidentemente, allo stato attuale delle cose, in cui gli autori sono intimiditi da minacce legali e in alcuni casi privati del sostegno degli editori, la difficoltà ad informare correttamente non è una fantasia.

La Rai, che dovrebbe offrire un’informazione veritiera e completa, è diventata un luogo di propaganda a favore del gruppo di potere, e sembra che qualsiasi giornalista che non si pieghi ai diktat del prepotente di turno dovrà essere emarginato o addirittura distrutto in sede giudiziaria.

Da recente, in Rai tira vento di novità ma non proprio “innovative”. Come molti sanno si paventa l’eliminazione della tutela giudiziaria per tutti i giornalisti di “Report”. Considerato che in passato la Rai non ha pagato nulla per le cause giudiziarie (dato che sono state vinte), è evidente che si vuole sottrarre tutela per scoraggiare i giornalisti dal fare un lavoro davvero indipendente e di qualità. In altre parole, si vuole far passare il messaggio “attento a quello che fai, non ti conviene avventurarti troppo nei tabù dell’informazione”.
Togliere la tutela legale alla Gabanelli e agli altri giornalisti di un programma come “Report” significa darla vinta ai prepotenti dello stesso stampo di Berlusconi e affini. Quando la Gabanelli ha protestato, la risposta di “mamma” Rai è stata: “Fatti vostri”.
 E il giornalista che ha chiesto alla Gabanelli “A chi date fastidio?",
 ha ricevuto come risposta: “Può farmi l’altra domanda, a chi non diamo fastidio?”.
L'eliminazione delle tutela giuridiziaria vuole invitare i giornalisti a restare nel recinto, dando un’informazione superficiale o non funzionale a capire veramente la realtà. E’ un modo subdolo per eliminare quelle trasmissioni di approfondimento giornalistico considerate scomode.

Purtroppo clausole come quelle della manleva possono riguardare anche giornali e pubblicazioni varie.
Una sorta di censura legale esiste anche nell’editoria saggistica, attraverso clausole contrattuali che gettano tutte le responsabilità dei contenuti sulle spalle dell’autore. In altre parole, l’editore guadagna quel che può da quelle pubblicazioni, ma se ne estrania per ciò che riguarda i contenuti, attraverso voci contrattuali che allontanano ogni sua responsabilità.
Purtroppo è una cruda realtà degli ultimi anni quella che vede piccoli e medi imprenditori che investono pubblicando libri (o riviste) che trattano argomenti tabù come il potere dei banchieri e delle grandi corporation, ma curandosi di porre nei contratti con gli autori clausole che li tengono lontani da possibili noie giudiziarie.

E’ comodo voler ricavare qualche soldo dal fatto che questa letteratura ha ormai una certa quantità di persone interessate, e prendere le distanze quando si tratta di condividere responsabilità sui contenuti. In altre parole, si pensa al profitto e non tanto al fatto che questo tipo di letteratura potrebbe generare maggiore consapevolezza della realtà, o comunque offrire una cultura non legata a gruppi di potere.
Gli editori che pensano soltanto al profitto vogliono talvolta apparire diversi da quello che sono, esibendo un’improbabile “passione” per ciò che fanno, tradita dalle clausole indicate nei contratti che essi offrono agli autori, e che vedono questi ultimi soli di fronte alla possibilità di conseguenze legali.
Ad esempio, un autore ha vissuto un’esperienza con un editore del genere suddetto, che si è fatto un’immagine assai positiva grazie alla pubblicazione di una rivista che tratta temi legati alla “controinformazione” o alla “medicina alternativa”. Tale editore offre un tipo di contratto vantaggioso soltanto per se stesso, pur divulgando un’immagine "morale" del proprio lavoro. Per chiarire meglio il fatto, si riporta come esempio un fac-simile di una clausola del contratto offerto da tale autore:

“L’autore cede, garantendone l’esclusiva titolarità, in esclusiva all’editore i diritti commerciali per la pubblicazione e il commercio dell’opera scritta, in lingua italiana per tutto il periodo previsto da questo contratto… L’autore dichiara di essere proprietario dell’opera in oggetto in questo contratto e che egli ha il potere di stipulare questo contratto per entrambi; dichiara inoltre che il contenuto e la pubblicazione dell’opera non costituisce violazione di alcuna norma vigente in Italia, né può recare pregiudizio di alcun genere a terzi. Egli dichiara pertanto di assumere a proprio carico tutti gli oneri e le spese che dovessero derivare all’Editore per effetto di eventuali azioni giudiziarie riconducibili dall’utilizzo dei diritti ceduti col presente atto.”

In poche parole, l’editore vuole ricavare profitti senza essere in alcun modo solidale con l’autore nel caso in cui qualche prepotente lo volesse trascinare in tribunale.
Come ha giustamente osservato Barnard a proposito della suddetta clausola: “Qui… chiedono una manleva generica su eventuali danni arrecati ad altri, e già questo è assurdo perché un editore deve condividere il valore dei testi che pubblica e al limite deve avvalersi di avvocati per vagliarli, come fa la RAI con le inchieste. Il ragionamento del "noi ti pubblichiamo ma sono cazzi tuoi se diffami qualcuno" è persino stato rigettato dalla recente giurisprudenza in diversi casi.”

Ma non finisce qui, oltre al danno c’è anche la beffa. L’autore che non ha voluto discutere il detto contratto e che ne ha proposto uno più accettabile, quando ha fatto notare l’incoerenza fra l’immagine offerta dall’editore e il comportamento reale, è stato apostrofato come “paranoico” e affetto da non precisate “disfunsioni” (si veda l'articolo http://lanuovaenergia.blogspot.com/2009/09/una-parola-per-molte-occasioni-metodo.html). Trattandosi di un editore che sarebbe anche un direttore di una rivista pseudo-medica-alternativa, si capisce la sua tendenza a fare diagnosi piuttosto che considerare e discutere i fatti.
In poche parole, l'autore non sarebbe "paranoico" quando permette all'editore di ricavare profitti dal proprio libro di contenuti "alternativi", ma lo diventa quando chiede all'editore di condividere anche i contenuti, e non soltanto ricavare profitti.

Eppure questi editori, come molte persone, sanno che oggi il settore giudiziario viene anche utilizzato come una specie di spada di Damocle per scoraggiare le persone dal trattare determinati argomenti. Spiega l’avvocato Giovanna Corrias Lucente:

“Sulla testa di ogni giornalista pende oggi la spada di Damocle di una querela per diffamazione. Lui – e il suo giornale – rischia la bancarotta, chi querela assolutamente niente. Anche se la denuncia si rivela infondata, infatti, è quasi impossibile ottenere un risarcimento. Risultato: i giornalisti scrivono sempre di meno e sempre più politically correct, le querele per diffamazione non si contano e i danni morali liquidati raggiungono cifre sbalorditive. Con buona pace del pluralismo e della libertà di stampa… Il giornalismo d’inchiesta è in via di scomparsa. Quali le cause? Il degrado dei giornalisti od i rischi processuali che affronta chi percorre territori non ancora sondati dai Giudici.”(2)

E’ vero che gli editori non sono benefattori, ma in teoria, dovrebbero condividere i contenuti di ciò che pubblicano (in linea di massima, altrimenti perché li pubblicano?), sennò che differenza c’è fra un editore avido appartenente al sistema, che mette il profitto al di sopra della qualità culturale e un editore che pubblica cose che smascherano il sistema ma lo fa stando attento a che le conseguenze ricadano soltanto sull’autore?
In entrambi i casi è il profitto che la fa da padrone, e dunque dal punto di vista morale non sembra ci sia una differenza significativa, nonostante il secondo possa spacciarsi per uno che è "consapevole" e che dunque pubblica opere che trattano argomenti tabù del sistema. Quest’ultimo vuole apparire moralmente migliore, ma di fatto può non esserlo ma soltanto apparire tale. In virtù di questa falsa immagine può vendere la sua rivista e i suoi libri, che “costano” veramente soltanto a chi li scrive e si è addossato tutta la responsabilità di ciò che ha scritto.

Uno può chiedersi cosa c’è di male ad avere profitti con questo tipo di letteratura. Certamente non c’è nulla di male a guadagnare pubblicando questo genere di libri, se però non si pretende di avere soltanto i vantaggi e caricare gli svantaggi tutti sull’autore.
Alcuni editori sono amichevoli quando subodorano che possono fare qualche quattrino, ma diventano ostili, del tipo “lei non sa chi sono io, poca confidenza” quando vedono che l’autore chiede conto di alcune clausole poco coerenti con l’immagine “controcorrente” che questi editori vogliono dare.
Per usare un'analogia, fatte le debite differenze, avviene un po’ quello che accadeva negli anni Sessanta e Settanta, epoca in cui gli industriali avevano inventato la formula “siamo tutti una famiglia” per far sentire a proprio agio l’operaio, evitando proteste. Ma quando qualche operaio decideva di chiedere un livello salariale più adeguato, o il rispetto dei suoi diritti, ecco che scattava la reazione che faceva capire che non si era proprio di famiglia.
Ieri come oggi, quando si chiede conto delle incongruenze di chi vuole apparire migliore di ciò che è, ecco che si solleva lo schermo di “classe”. Infatti, come molti ormai hanno capito, nel sistema in cui viviamo c’è l’idea che alcuni, in virtù del loro “status sociale” possano dettare legge, anche quando questa "legge" è immorale, schermandosi con l'appartenenza al sistema.
Qualcuno può dire: "Dove sta l’immoralità? Del resto siamo abituati da secoli all’arroganza di coloro che si sentono “altolocati” e hanno armi ben potenti dato che il sistema è dallo loro parte."
Tuttavia, negli ultimi anni qualcosa è cambiato, esistono davvero persone che credono in quello che fanno, e che lo fanno davvero per passione. Avere a che fare con chi millanta “passione” ma è pronto a diagnosticare patologie all’autore che non accetta di discutere o firmare contratti assurdi appare davvero paradossale.

E’ comodo voler sfruttare un filone letterario che, anche se ovviamente non fa vendere milioni di copie, ha una propria utenza.
Questo è accaduto a partire dal periodo in cui è stata diffusa la cosiddetta “new age”. Diversi editori si sono accorti che il filone aveva i suoi affezionati lettori e così hanno deciso di pubblicare determinati libri. Alcuni di questi editori non lo facevano per “passione” ma perché sapevano che si potevano avere profitti. Col filone delle pubblicazioni new age è stato creato anche un giro di conferenze, seminari o convegni, in cui gli utenti pagano spesso cifre che vanno dai 25 euro fino addirittura a cifre come 500 o 600 euro. I guadagni dunque possono essere notevoli, e molti di coloro che si occupano di queste iniziative spesso non pagano i relatori (ovviamente quando si tratta di personaggi non famosi), intascando talvolta non poco denaro e spacciandosi per “appassionati” del genere.
Si crea un paradosso: un filone che promuove una nuova realtà, fatta di spiritualità, altruismo, non più fondata sul profitto ma su un nuovo sistema economico- finanziario, viene promosso da persone motivate soprattutto al guadagno, che chiedono cifre spesso non irrisorie per tutto ciò che organizzano. Lo stesso avviene con alcuni editori di “controtendenza” specie quelli legati a marchi statunitensi: essi sono imprenditori attenti più che altro al profitto. Da queste pubblicazioni ricavano diversi vantaggi, non soltanto economici, potendo millantare una vicinanza ad una cultura “alternativa” che di fatto non c’è. Essi rimangono ben aggrappati al sistema, a tal punto da utilizzare le medesime etichette negative persino contro autori i cui libri avevano considerato pubblicabili, ma che hanno mostrato di non gradire i loro contratti. C’è anche da dire che alcuni di questi editori si sentono forti per la reale difficoltà che hanno gli autori indipendenti a trovare editori che pubblichino i loro libri, e dunque credono di poter tranquillamente offrire contratti-spazzatura, con alte probabilità che gli autori li accettino. E vogliono far credere che trovare autori disponibili anche a determinati contratti sia sintomo di qualità del contratto piuttosto che della triste situazione editoriale in cui ci troviamo attualmente.
Purtroppo, la pubblicazione di libri “controcorrente” da parte di piccoli editori permette a questi ultimi un, seppur esiguo, guadagno, ma non permette che taluni argomenti vengano portati all’attenzione del grande pubblico, preservando però l’apparenza di “pluralismo” editoriale del nostro sistema.

Purtroppo, la situazione culturale attuale del nostro paese è assai misera: da un lato troviamo la grande editoria promossa dal gruppo di potere, che propone libri sempre più scadenti e propagandistici, dall’altro lato esistono piccoli e medi editori, alcuni dei quali molto seri e altri non disposti a sostenere le idee dei libri da cui tuttavia ricavano guadagni.

Il sistema vince quando gli editori non difendono la libertà di pensiero se rischiano qualcosa, vince quando un autore rimane solo, e si allontanano anche quelli che in altre sedi vogliono apparire “appassionati” difensori della verità.
Vince quando non c’è una reale e disinteressata solidarietà con chi ha il coraggio di dire le cose come stanno, di stanare coloro che non la raccontano giusta, e di far emergere la vera realtà in cui stiamo vivendo.
Non si tratta di scoop per far soldi, né di libri che scaleranno le classifiche, ma di una informazione veritiera necessaria per creare una vera democrazia. Altrimenti esiste soltanto una realtà di giullari e guitti, spesso in malafede.
Una realtà paradossale, ma purtroppo vera, in un sistema in cui spesso non si valorizza la cultura ma soltanto il guadagno che se ne ricava. In cui sembra che persino il bisogno di cambiamento e di una società migliore possa diventare soltanto “merce” da cui ricavare profitti. E’ così che può morire la cultura, l’informazione, e con esse la fantomatica “democrazia”.


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NOTE

1) http://www.paolobarnard.info/censura_legale_repliche.php
2) “Micromega”, 29 giugno 2007.

1 commento:

Unknown ha detto...

Perchè non chiedersi:

"Come mai il giornalista investigativo indipendente é quasi sparito"?

La RAI è la RAI, e sempre metterà i suoi vincoli e lacciuoli. Essa ha un suo dinamismo "culturale" interno che ha giocato un ruolo enorme nel suo degrado. Grandi poteri a parte.

La vera libertà di stampa si vede anche dal numero di giornalisti d'inchiesta indipendenti che un paese puo' permettersi.

E qui entra impetuosamente in ballo la cultura di un paese. Quanti lettori occorrono per far vivere il nostro giornalista? Se vien letto solo sul web, lui deve campare scrivendo libri (riecco l'editore). Non di soli bit vive l'uomo.

È sufficientemente grande l'Italia? Ha cultura sufficiente per quanti giornalisti d'inchiesta indipendenti? Per non farli morir di fame insomma.

Gli USA, con tutte le loro magagne, producono sempre ed ancora informatori fuori dal coro, slegati dai grandi network e dalle grandi testate.

Ma hanno il vantaggio della dimensione continentale e della lingua unica.

Con stima